Cerith Wyn Evans — Testimoni oculisti in un viluppo misterioso
All’Hangar Bicocca le immateriali sculture fluttuanti di luce e suono di Cerith Wyn Evans procurano un’esperienza sinestetica piena di misteri in un bosco intessuto di citazioni e allusioni, che appaiono e spariscono a seconda del punto di vista.
Negli anni 2000 l’artista gallese Cerith Wyn Evans si è convertito da regista sperimentale e strutturalista a scultore, e ora il suo “film” è diventato scultura immateriale ed è fatto di luci e suoni. Da riproducibile si è fatto irripetibile e ha sommerso lo spazio espositivo, lo spazio reale del qui e ora. La sua mano da regista mette in scena le sue sculture immateriali nella cattedrale dell’Hangar Bicocca. Allo stesso tempo Evans dirige i protagonisti, gli spettatori, in una coreografia articolata come flusso libero e permette loro, così facendo, di immergersi in uno spazio-tempo magico e fluttuante in cui la percezione delle opere si modifica con ogni passo. Oltre a trasporre il linguaggio del cinema nel vocabolario scultoreo e nello spazio fisico, Evans reinterpreta concetti, forme ed elementi dai più disparati campi della cultura come l’arte moderna e antica, la musica, la letteratura, la danza e la scienza. Così il titolo stesso “.. the illuminating Gas” cita il titolo di “Etant donné”, l’ultima opera di Marcel Duchamp, nella quale lo spettatore diventa “voyeur”. La citazione si riferisce al ruolo del gas nella produzione di luce, condizione sine qua non di ogni arte e di ogni percezione. Subito all’ingresso gli spettatori si imbattono in una foresta di sette colonne fatte di tubi di vetro. Esse somigliano solo formalmente ai pilastri dell’architettura antica, poiché non poggiano nemmeno per terra e sono fatte di vetro, quindi fluttuano nello spazio e rappresentano al contrario la trasparenza e l’estrema fragilità per eccellenza. Un algoritmo detta il ritmo con il quale i led si accendono e spengono lentamente, e le colonne passano da traslucide a bianche, da spettrali a illuminate. Nella navata centrale il pubblico scorre liberamente sotto le giganti sculture di neon che evocano i concetti spaziali di Lucio Fontana in versioni ingarbugliate, piene di citazioni più o meno esplicite, che appaiono a seconda del punto di vista. Vi si trovano ad esempio i “testimoni oculisti” del Grande Vetro di Marcel Duchamp, delle linee convulse e aggrovigliate che seguono i gesti e le coreografie tata del teatro Noh del Giappone; delle formule chimiche o delle forme geometriche. Come ha fatto Evans stesso anni fa a Tokyo guardando la città da un grattacielo, anche il pubblico si deve sentire incapace di cogliere tutti gli strati di significati e i livelli interpretativi di una realtà complessa e indecifrabile, misteriosa e nascosta che si dà alla vista come intrico di luci.