Da uno stato all’altro
Quando conobbi Adrian Paci dieci anni fa, fui colpita dalla sua gentilezza, nonché dalla sua mente acuta. Difatti, i lavori dell’artista albanese che ora risiede a Milano, trasmettono capacità empatica e al contempo distacco analitico: «Per vedere i vuoti e tensioni delle pieghe nascoste, devi combinare all’affetto la distanza che ti concede lo spazio in modo da sviluppare un punto di vista critico», come racconta in un’intervista nel catalogo della mostra.
Quando conobbi Adrian Paci dieci anni fa, fui colpita dalla sua gentilezza, nonché dalla sua mente acuta. Difatti, i lavori dell’artista albanese che ora risiede a Milano, trasmettono capacità empatica e al contempo distacco analitico: «Per vedere i vuoti e tensioni delle pieghe nascoste, devi combinare all’affetto la distanza che ti concede lo spazio in modo da sviluppare un punto di vista critico», come racconta in un’intervista nel catalogo della mostra. Paci riesce a tradurre la peculiare esperienza travolgente del crollo politico ed economico del suo paese e della conseguente migrazione forzata, in una poetica di portata universale e ad estrarne un significato metaforico.
Nei primi video, il tema di migrazione ha valenza autobiografica, come in ‹Albanian Stories› del 1997, in cui la figlia di tre anni racconta delle fiabe, amalgamate con ricordi di situazioni di guerra in Albania. In ‹Believe me I am an artist› del 2000, l’artista cerca di convincere un poliziotto della squadra mobile che il presunto timbro di espatrio albanese sulla schiena di sua figlia è in realtà un’opera d’arte, un disegno cancellabile con l’acqua e non violenza su minori, della quale fu accusato. L’agente lo libera, consigliandoli di limitarsi a fare delle foto alle bambine che sorridono. In un dittico del 2008, ‹It was not a performance›, si vede Adrian bambino con un gruppo di albanesi in uniforme e affianco la prima pagina del giornale ‹La Padania›, con il titolo ‹Invasione pianificata› e una fotografia che mostra la coda degli immigrati per ottenere il permesso di soggiorno: nella folla, lo stesso Paci.
Nella scultura ‹Home to Go›, un calco dell’artista, che porta un tetto rovesciato sulla schiena, invece, il concetto di abitazione mobile prende un senso cosmico: il tetto ricorda delle ali e con il peso che si trascina, la figura sembra portare la sua croce. In ‹The Column› del 2013, l’artista traspone la problematica dell’esodo sull’arte, nonché sul modello culturale occidentale che ritorna in veste di copia cinese. A bordo della «nave fabbrica», il tempo di produzione coincide con il tempo di trasporto. Cinque artigiani cinesi scolpiscono, durante il trasferimento, da un blocco di marmo grezzo una colonna classica con capitello corinzio. L’opera d’arte stessa si rivela così nella sua veste da migrante ed espone al contempo il processo del suo divenire come flusso esistenziale. Come spiega l’artista, «lascia uno stato per un altro, senza mai raggiungerlo».Barbara Fässler è artista, teorica e insegna alla Scuola Svizzera di Milano.