La pattuglia italiana alla dOCUMENTA (13) di Kassel

Non a caso, la tredicesima edizione della dOCUMENTA a Kassel pone il mappamondo di Alighiero Boetti – ricamato da donne afghane nel 1971 – in posizione centrale al Fridericianum. Non soltanto perché questa opera, prevista per la Documenta 5 del 1972 curata da Harald Szeemann, non arrivò in tempo per l’evento nell’Assia settentrionale e quindi finalmente giunge dopo quarant’anni a destinazione, ma perché il tappeto dell’artista italiano trasporta uno spirito di internazionalità, di intrecci – non solo dei fili – di curiosità verso esperienze diverse.

Boetti lo chiamò a «mettere al mondo il mondo», un mondo pluricolore di reti e ricami che continua a rinascere attraverso il confronto con ciò che (ancora) non conosciamo. Infatti, dal 1971 al 1977, Alighiero Boetti tenne aperto per svariati mesi all’anno il suo «One Hotel» a Kabul, dove organizzò degli eventi. Luogo di scambi internazionali, ora riscoperto, documentato e riattivato per dOCUMENTA (13) da Mario Garcia Torres, artista messicano, classe 1975.

Tra i più di 150 artisti, scrittori e scienziati, provenienti da 55 paesi, gli italiani sono una dozzina. Per cominciare, la direttrice Carolyn Christov Bakargiev, anche se in Germania viene percepita maggiormente per la sua veste americana, possiede una bella parte di italianità: di madre italiana, vive con il marito italiano e i figli a Roma e fu per anni curatrice al castello di Rivoli.

Dopo l’accesso al Fridericianum, si giunge direttamente alla «rotonda»”, luogo battezzato dalla curatrice «il cervello» della manifestazione. Questo spazio densamente popolato, funziona come se fosse una sorta di microcip, nel quale si accumulano informazioni, opere, reperti archeologici e fotografie del tutto programmatici: in realtà una sorta di dichiarazione degli intenti di Carolyn Christov Bakargiev. Vi troviamo una serie di nature morte di Giorgio Morandi, oltre a ceramiche dello studio che li servirono come modelli. Nel lavoro di Morandi l’oggetto figura come pretesto per una ricerca puramente pittorica: egli ci mostra che niente è più astratto della realtà stessa. Anche Francesco Matarrese celebra la ritirata: presente alla dOCUMENTA con l’opera «The Challenge», si scopre che l’artista pugliese, decise nel 1978 di non seguire l’invito ad una mostra importante. Egli inaugurò così una stagione artistica di rifiuto radicale, come conseguenza delle contraddizioni tra impegno politico e fallimento delle utopie. Il disegno «Hypotalamic Brainstorming» del 1962, ad opera di Gianfranco Baruchello, ci porta, invece, in uno spazio mentale e non euclideo, nel quale rischiamo di perdere l’orientamento, perché riesce a mettere in crisi il nostro sentire consueto, formulando un’utopia spazio-temporale del tutto inedita. L’opera del quarto artista italiano inserito nella «rotonda», Giuseppe Penone, ci parla invece dalla differenza tra artefatto e oggetto della Natura. I due sassi – con il titolo «Essere fiume» del 1998 – che possono sembrare identici, in verità sono, il primo, un sasso di fiume e il secondo, la sua copia scolpita in marmo bianco di Carrara. L’artista piemontese occupa anche un prato nell’Auepark con «Idee di Pietra», una delle prime opere che sono state installate per dOCUMENTA (13). Si tratta di un albero di bronzo che porta sui rami un altro sasso di fiume. Questa scultura potrebbe essere letta come l’esatto contrario di quella di Beuys: le sue famose 7000 querce del 1972 a Kassel, portano il sasso al loro piede, come marchio dell’artista.

Nella ricerca di Fabio Mauri, l’attenzione si sposta dalla problematica della Natura e della materialità ad un’analisi dell’identità culturale. Compagno di strada di Pasolini nelle pubblicazioni «Il Setaccio» e «Quindici», era per tanti anni alla guida della casa editrice Bompiani. L’accesso al mondo si fa linguistico nelle installazioni di Mauri: «L’arte fa, perché è storia e mondo» piuttosto che «Forse l’arte non è autonoma», si legge ritagliato nei tappeti posati per terra. Negli «Schermi», invece, le parole sulle tele bianche sostituiscono la pittura assente:«The End» del 1970, dichiara un’altra volta la fine dell’arte o forse piuttosto la fine dello spettacolo.

Rossella Biscotti, classe 1978, si comporta come un’archeologa della recente storia, ancora tanto dolorosa. Nella sua installazione «Il processo» del 2010-12, la giovane artista ci confronta con otto ore di registrazione audio che riproducono i verbali del «processo 7 aprile» contro i membri di «autonomia operaia», che si svolse tra il 1983 e 84 nel Tribunale di Roma. Gli intellettuali del gruppo furono accusati di essere responsabili moralmente e ideologicamente per il terrorismo. L’artista riempie lo spazio con calchi di cemento grezzo di dettagli prese dall’aula, nella quale si svolsero le udienze. Biscotti strappa i materiali dall’oblio e li porta alla luce del giorno. Purtroppo non si evince come l’autrice pensa elaborarli oltre lo stato grezzo, nel quale li «espone» e se e come intende prendere posizione rispetto a temi caldi, ad esempio l’uso di violenza come metodo politico.

Mentre Massimo Bartolini, nel parco, ci fa dondolare (mentalmente) in un’onda in perpetuo movimento, ricordandoci il ciclo eterno della vita, dove tutto scorre, Anna Maria Maiolino ci riporta in una dimensione femminile dell’accudire quotidiano. Lara Favaretto sembra più attratta dai materiali destinati alla sparizione. Così, in «Momentary Monument IV», la giovane trentina innalza un mucchio gigantesco di ferro arrugginito alla Stazione Centrale di Kassel.

Barbara Fässler



2012
dOCUMENTA (13), 2012 Kassel curated by Carolyn Christov Bakargiev


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Il Sole 24 Ore

Rossella Biscotti appears behind her work The Process, 2010-2012, (Photo: Barbara Fässler)
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Rossella Biscotti appears behind her work The Process, 2010-2012, (Photo: Barbara Fässler)

Lara Favaretto, Momentary Monument IV (Kassel), 2012, (Photo: Paolo Bergmann)
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Lara Favaretto, Momentary Monument IV (Kassel), 2012, (Photo: Paolo Bergmann)